Architettura e Antropologia: un’unità necessaria. Con un caso di architettura spontanea in Calabria

C’è qualcosa di estremamente basico che accomuna architettura e antropologia. Cioè l’attenzione all’uomo, alle sue relazioni e al contesto nel quale queste relazioni hanno luogo.

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Architettura e Antropologia: una premessa necessaria

In diversi manuali di antropologia è scritto che tra i principali bisogni dell’uomo c’è il nutrirsi (l’alimentazione), il coprirsi (l’abbigliamento) e l’organizzare gli spazi antropizzandoli (l’architettura). Spesso conferendo agli stessi forti e specifici significati simbolici.

Così, fare antropologia significa osservare elementi culturali e fare delle comparazioni, delle connessioni, nel tentativo di mettere in relazione fra loro diversi aspetti del vivere umano. L’architettura è, invece, la disciplina che ha come scopo l’organizzazione dello spazio in cui vive l’essere umano. Allora è evidente l’unità necessaria tra Architettura e Antropologia.

Esattamente come più volte affermato dall’architetto Renzo Piano: un bravo architetto deve essere un antropologo, deve saper ascoltare. E l’arte dell’ascolto non è solo nei confronti delle persone, ma anche dei luoghi. E questo è un passaggio estremamente importante.

Architettura e Antropologia: un passaggio estremamente importante

Quello dell’architetto Renzo Piano è un passaggio estremamente importante per comprendere l’unità necessaria tra architettura e antropologia.

Infatti, c’è la sensazione che parte dell’architettura contemporanea si sia in qualche modo allontanata dall’arte di osservare, di ascoltare e di studiare usi, costumi, abitudini delle persone e delle comunità per tradurli in spazi e forme capaci di migliorare le condizioni di vita, dell’abitare o del percepire i luoghi. E ritengo che questa responsabilità non sia da imputare all’architetto. Diciamo che spesso è un problema politico e in alcuni casi anche un problema culturale.

Pare che all’architetto non sia più chiesto di indossare i panni dell’antropologo per studiare l’uomo come un tempo spontaneamente avveniva. Pare che all’architetto è richiesto di essere e di fare la star. Naturalmente con le dovute eccezioni e in linea con le richieste che vengono fatte ai professionisti delle altre discipline. È questa una cosa su cui riflettere.

Punto, linea e superficie

Detto questo, un libro che ha segnato la formazione di molti architetti, e non solo architetti, è Punto, linea e superficie di Kandinskij. Qui il punto è il primo nucleo del significato di una composizione, e può in qualche modo simboleggiare la staticità. La linea è la traccia lasciata dal punto in movimento, quindi la dinamicità. Mentre la superficie è il supporto materiale destinato a ricevere il contenuto dell’opera.

Kandinskij

Ora, nel leggere questo libro è bello dare una chiave metaforica al punto, alla linea e alla superficie. E allora il punto diventa l’uomo, l’individuo. La linea può rappresentare le relazioni tra gli uomini, quindi le comunità. La superficie diventa invece il contesto antropizzato dove si manifesta il sistema di relazioni, lo spazio-luogo architettonico appunto.

Così, questa visione metaforica del punto, della linea e della superficie di Kandinskij ci può aiutare a riconoscere i luoghi distinguendoli da quegli spazi che luoghi non sono.

Luoghi e non-luoghi

Come precisato dall’antropologo francese Marc Augé, sono luoghi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di essere identitari, relazionali e storici in contrapposizione ai non-luoghi. Cioè quegli spazi che non possiedono queste prerogative e in cui gli individui s’incrociano senza entrare in relazione. Quasi sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane. Un classico esempio di non-luogo è un centro commerciale, altro esempio è un aeroporto.

Così sulla base di questa visione metaforica del punto, della linea e della superficie di Kandinskij possiamo accorgerci che ci sono luoghi storicamente organizzati e indirizzati alle persone e alle comunità.

Sono spazi dove l’unità tra architettura e antropologia è evidente. Unità che ha favorito e continua a favorire l’inclusione e le relazioni umane. Luoghi dove è possibile cogliere la propensione al bello e contemporaneamente all’utile. Qui tutto è materiale e immateriale allo stesso tempo anche perché tutto è nello stesso tempo e contemporaneamente materiale e immateriale.

Sono luoghi che favoriscono percezioni altre dello spazio antropizzato con moduli stilistici visionari, esclusivi, mai visti prima. E molti sono casi di architettura spontanea, con la creazione di ambienti pubblici destinati alla quotidianità tenendo presente delle esigenze dei veri fruitori di questi spazi.

Un caso di architettura spontanea in Calabria: la Gjitonia arbëreshë

Uno di questi spazi-luogo di architettura spontanea è la Gjitonia arbëreshë. Qui bello e utile, materiale e immateriale s’incontrano quasi per confondersi. Qui è possibile percepire e sperimentare l’unità tra architettura e antropologia.

La Gjitonia Arbëreshë di Caraffa di Catanzaro

Gjitonia Arbëreshë di Caraffa di Catanzaro (CZ)

Franco Fileni, compianto professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, con evidente sapienza e sensibilità identificava la Gjitonia arbëreshë come locus della cultura arbëreshë. Cioè gli albanesi d’Italia, una minoranza etno-linguistica albanese storicamente stanziata in Italia meridionale e insulare.

Si tratta, cioè, di quell’unità fisica, sociale e simbolica delle comunità arbëreshë. Per intenderci, la Gjitonia è un luogo circoscritto da alcune abitazioni i cui ingressi si affacciano su una piazzetta. Qui, specialmente le donne, gli anziani e i bambini si riunivano, e in alcune Gjitonie continuano a riunirsi, per svolgere le funzioni quotidiane.

Un luogo

La Gjitonie è un luogo d’incontri e di trasmissione del sapere tradizionale. Qui viene trasmesso il patrimonio orale da una generazione all’altra. Qui avvengono scambi di beni e di prestazioni secondo il valore d’uso e s’instaurano duraturi vincoli di solidarietà. Nascono conoscenze profonde e affetti particolari cosicché è diffuso un detto popolare: Gjitoni è più che parente, che significa il vicino è più intimo di un parente.

Questo esempio di architettura spontanea, o meglio di etno-architettura, può aiutarci a comprendere quanto potente possa essere uno spazio ben pensato e ben progettato. E quanto invece possa essere problematico una spazio mal pensato e mal progettato.

Una critica necessaria

A ben pensare e a ben vedere quest’unità fisica, sociale e simbolica, la Gjitonia appunto, è una costante architettonica degli impianti urbanistici degli insediamenti arbëreshë. E’ uno spazio-luogo pensato e progettato spontaneamente.

E’ uno spazio-luogo pensato e progettato spontaneamente esattamente perché favorisce e incoraggia le esigenze etniche, storiche, culturali, sociali, economiche e psicologiche di queste comunità. Costante e spontaneità che poco ha a che vedere con alcuni esempi di architettura contemporanea. Strutture contemporanee con spazi bellissimi, vere opere d’arte. Alcuni di questi progetti, però, prescindono dai luoghi e dalle comunità che ci vivono, o che ci vivranno.

Ne consegue che molte opere architettoniche progettate in quest’ottica potrebbero tranquillamente essere realizzata in qualunque luogo e destinate a qualsiasi comunità. E questo è evidentemente un errore.

E’ un errore perché l’idea di fondo è che quando si progetta uno spazio, quello spazio può e deve essere realizzato esclusivamente nel luogo dove è stato pensato. E solo dopo aver osservato, ascoltato e studiato usi, costumi, abitudini delle persone e delle comunità. Questo è un risultato che si può ottenere soltanto se l’architetto recupera quella sensibilità antropologica oggi smarrita. Quella spontaneità evidentemente in qualche modo non più richiesta.

Leggi anche: Gli abanesi di Calabria: la Gjitonia arbëreshë di Caraffa di Catanzaro

Architettura e Antropologia: un caso di etno-architettura visionaria contemporanea

Chi ha pensato e progettato questi spazi, avrà di certo sentito il pulsare del mutamento indirizzandolo verso composizioni inedite anticipando e plasmando nuove sensorialità. Inventando, di fatto, scenari presenti e futuri. Così sostiene l’antropologo Massimo Canevacci in riferimento all’analisi di alcuni spazi-luogo.

Si tratta di un’analisi incredibilmente bella. E anche di un’analisi senza tempo che può tranquillamente essere impiegata per definire la Gjitonia arbëreshë così come qualsiasi altro luogo di March Augé

A pensarci bene, è questa un’analisi che può tranquillamente essere impiegata per definire la nuova linea metropolitana di Napoli con le sue magnifiche stazioni. In particolare la fermata Toledo.

Architettura e antropologia_fermata Toledo Metropolitana di Napol

Un altro luogo

La fermata Toledo è uno spazio-luogo esaltante, qui l’architetto spagnolo Óscar Tusquets si è superato.

Qui viene quasi voglia di leccare le pareti. Di avere un rapporto fisico con questi spazi. Qui è possibile cogliere l’ethos napoletano, il carattere dei napoletani e di questa incredibile città. Qui bello e utile, materiale e immateriale si confondono per amplificare le percezioni dell’osservatore quasi per dirgli Welcome, sei a Napoli.

È evidente allora che è necessaria e urgente un’architettura per l’uomo. Un’architettura per le comunità. Un’architettura che tenga conto dei luoghi. Diciamo un’etno-architettura, o un’antropo-architettura, segnata da un nuovo e armonioso incontro tra architettura e antropologia… per un’unità necessaria.

A presto, Sergio.

Ps: l’articolo è liberamente tratto dal mio intervento alla conferenza Le torri del sapere in occasione della giornata di apertura della mostra convegno Arkeda presso la Mostra d’Oltremare di Napoli.


Ciao
, sono Sergio Straface e sono un Antropologo. Mi occupo di ricerca etnografica e lavoro nel Marketing e nel Management dei Beni Culturali e del Territorio. Qui scrivo di tradizioni popolari e folklore – ricette e food – religiosità popolare – reportage – comunità storico-linguistiche calabresi – abbazie, chiese, conventi e santuari… insomma tutto quello che ha a che fare con l’universo etno-antropologico soprattutto in Calabria. 
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