Il soggetto del desiderio… verso una breve riflessione sul Design
Pare che la personalità degli oggetti interagisce con la personalità delle persone, e allora il soggetto del desiderio…
Una definizione di cultura
L’antropologia culturale è la scienza sociale, o disciplina, necessaria per indagare l’origine e le motivazioni profonde dei fenomeni culturali. Cultura, dunque, come parte indissolubile della natura umana.
Ne consegue che l’antropologia culturale vede l’uomo nel suo contesto naturale, e culturale, per coglierne le relazioni. Quindi l’alterità, la diversità, e nel contempo i parallelismi. Gli elementi culturali comuni.
L’antropologo inglese Edward Tylor, nel lontano 1871 così definiva la cultura. La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società.
Si tratta di una definizione di cultura che ha il pregio di cogliere la totalità dell’uomo. Uomo come soggetto creativo, e come appartenente a un sistema culturale e sociale. Una definizione che ci permette, anche, di operare una fusione tra mente e cultura. Una fusione per cogliere il rapporto di reciprocità, e accorgerci che la cultura è prodotta dalle menti umane che, a loro volta, sono modellate dalla cultura.
La cultura materiale
E allora la cultura, nella sua dimensione materiale, consiste in un insieme di oggetti, di cose, orientate all’organizzazione della realtà. Una realtà che prende forma nelle cose che le persone, in origine, hanno in mente. Quindi il loro modo di pensarle, modellarle, possederle, interpretarle. Esattamente come accade, anche, per gli oggetti di design.
Ora, in tutti i manuali, o in quasi tutti i manuali, è scritto che Design è una parola inglese traducibile con la parola italiana progetto. E progettare deriva dal latino che significa gettare avanti.
Così il designer, in genere architetto, opera un processo di progettazione di un qualsiasi oggetto. E, nel realizzare le proprie idee, deve avere consapevolezza del presente e immaginare un futuro. Design come progetto, disegno che prede forma e si fa cosa. Cosa che trasmette visioni e immagini mutando, spesso, in soggetto del desiderio.
Soggetti
Di fatto, le nostre vite quotidiane sono popolate da questi oggetti. Oggetti della vita quotidiana che vengono investiti da significati acquisendo valore simbolico. Così, se questi oggetti sono prodotti culturali, per parafrasare l’antropologa Mary Douglas, attraverso questi oggetti la cultura prende forma.
Potremmo sostenere, come intuisce l’architetto Fulvio Carmagnola, che i designer cercano di colmare la differenza che nella vita quotidiana esiste fra ciò che appare essere reale e quello che si desidera diventi reale. Spesso attingendo dall’immaginario collettivo, e nel contempo alimentandolo.
Diremo che in questo processo il designer attinge da un repertorio condiviso.
E allora, in una riflessione sui e con gli oggetti di design è giusto, come suggerisce l’architetto Gian Piero Frassinelli, porsi delle domande. Che cosa ci attrae di un oggetto di design? Cosa ci spinge a desiderare un oggetto di design? E ancora… cosa ci muove ad affrontare spese spesso folli per acquistare e quindi possedere un oggetto di design?
Qualcuno scrisse: sempre la più bella risposta a chi fa la domanda più difficile. E allora, una risposta bella potrebbe essere: l’in-visibile.
L’in-visibile
In, dall’etimologia e nel senso di entro, equivale a una preposizione che indica la relazione tra contenente e contenuto, cioè per significare l’essere, la stasi nel circuito, ciò che è. Visibile, invece, nel suo etimo indica possibilità, capacità, che può vedersi, atto a essere veduto, l’altrimenti manifesto.
Ne consegue che è in-visibile ciò che è altrimenti manifesto, l’essere, la stasi dell’essere che può essere veduto. Visto.
Bene, per chi non è un designer, quello del design è un luogo strano, bizzarro. Dunque affascinante e che genera desiderio. E’ un luogo fatto di oggetti in-visibili che si soggettivizzano, e che alimentano l’esperienza del bello.
Del bello mutevole, del bello che è sempre bizzarro. E, per prendere in prestito una definizione di Charles Baudelaire, il bello contiene sempre un poco di bizzarria che lo fa essere il bello in particolare. Oggetto di design che diventa bello, desiderabile e parte del soggetto, dunque soggetto.
Da qui, anche, le responsabilità poetiche, estetiche, etiche, sociali, psicologiche, antropologiche e anche politiche dei designer.
Il soggetto del desiderio
Per insistere sul soggetto del desiderio, l’antropologo Igor Kopytoff considerava gli oggetti come se fossero dotati di una personalità. Cioè le cose sono vive e possiedono una carriera sociale, una biografia culturale, che assume significati diversi nell’intreccio con la vita delle comunità.
E ancora, secondo l’antropologo Arjun Appadurai, il legame tra soggetto e oggetto dipende dallo status sociale del soggetto. E anche dalla storia e dallo status dell’oggetto, in un processo di reciproca costruzione. E’ evidente, allora, che la personalità degli oggetti interagisce con la personalità delle persone. Tra cose e persone fluiscono costantemente delle relazioni.
Naturalmente non dobbiamo pensare alla personalità degli oggetti come se fossero dotati in uno spirito. Si tratta di una metafora relazionale tra persone e cose, e tra cose e persone. Dal rapporto profondo dell’oggetto con le persone che lo possiedono o lo desiderano e tra le persone che lo possiedono e lo desiderano, più qualcos’altro.
Per spingerci oltre…
E allora, per spingerci oltre, secondo l’antropologo Daniel Miller sono le relazioni con gli oggetti che crea i soggetti. Soggetti che attraverso le relazioni con gli oggetti costruiscono la loro estetica creando un proprio stile, una propria moda. Evidentemente sfruttando i diversi potenziali che percepiscono nella proprietà di ciascun medium materiale, soprattutto se di design. Da qui il soggetto del desiderio.
Ritorniamo ancora una volta alle responsabilità poetiche, estetiche, etiche, sociali, psicologiche, antropologiche e quindi anche politiche dei designer.
E ancora, il designer Enzo Mari, provocatoriamente, sosteneva che il design è uno spreco e, se guardiamo il design di oggi a memoria futura, non è altro che la discarica dell’ignoranza e dell’orrore. Vedi pure Così parlò Bellavista!
E’ esattamente quello che deve evitare un designer. Cioè il manierismo, l’effetto scenico. Una qualità legata esclusivamente alla seduzione e alla vendibilità dell’oggetto che, secondo l’architetto Gian Piero Frassinelli, è superabile a seguito di una dettagliata analisi pre-progettuale. Analisi pre-progettuale che mi piace definire sensibilità antropologica.
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Sensibilità antropologica
Una sensibilità antropologica che tenga conto di come gli oggetti agiscono nella vita individuale e sociale. E anche delle relazioni profonde che s’instaurano tra oggetti e persone, e tra persone e oggetti, per esplorare un linguaggio nuovo. Inedito.
Un linguaggio capace di trasmettere visioni, immagini, forme. Con la consapevolezza che le cose assorbono valori e significati, svolgono differenziate funzioni, parlano molteplici linguaggi, spesso a seguito delle diverse personalità che acquisiscono.
Che una possibile soluzione etica, e anche poetica del design, sia disubbidire a vecchie logiche, per abbandonarsi a quella necessità che segna il confine tra l’autocorrezione cosciente e l’obbedienza inconscia alla calibrazione interiore? Probabilmente si.
A presto, Sergio.
Ps: l’articolo è liberamente tratto da una mia pubblicazione sulla rivista Arkeda 2020.
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