Piatti tipici della tradizione calabrese: la Caddara di maiale di Catanzaro
La Caddara è un pentolone panciuto di rame zincato rotondo e in genere con due manici laterali di ferro, un recipiente simbolico in cui cuocere il maiale…
Un’introduzione…
È bello immaginare l’origine dell’esperienza dell’atto del nutrirsi, ma prima ancora è bello partecipare a momenti di consumo conviviale e rituale di cibo. Quei momenti che allestiscono le condizioni favorevoli capaci di generare relazioni con profonde valenze simboliche e in qualche modo connettive.
Si generano così nuovi legami con se stessi, con gli altri e con il cibo buono da mangiare e soprattutto buono da pensare, anche perché il sapore lo dà l’appetito, e appetito viene da appetire, desiderare, cioè una tendenza appassionata non guidata dalla ragione. Vedi pure un ardente desiderio ispirato da quell’appetito stimolato da profumi, ricordi, relazioni e magari da immagini in bianco e nero. Vedi pure la Caddara.
Le immagini in bianco e nero… tecnicamente la Caddara è un recipiente di rame zincato rotondo e in genere con due manici laterali di ferro; in pratica, invece, la Caddara (o anche Coddara) è un pentolone panciuto costruito da ’u Caddararu o ’u Mastru stagnataru nella sua bottega in cui viene cotta, o meglio bollita, la carne di maiale.
E ancora…
Nella pratica la Caddara era e continua a essere un utensile domestico personale, spesso tramandato da famiglia in famiglia. Detto altrimenti nella cultura tradizionale ogni donna (oggi per lo più di una certa età) aveva e continua ad avere la sua Caddara, da curare e custodire gelosamente e magari con una forma diversa da quella originaria, anche gli oggetti della tradizione cambiano.
Bene, in gran parte della Calabria Caddara funziona un po’ come una sineddoche giacché mangiare la Caddara equivale a dire mangiare il maiale, e la Caddara è un’arte e assieme un rito, più qualcos’altro… perché la Caddara si mangia.
L’arte della Caddara
La Caddara è un’arte, è un’arte perché è una performance e, secondo il grande antropologo Victor Turner, la performance è una pratica corporea necessaria a una ri-definizione critica del reale, e come per magia l’arte performativa della tradizione ri-definisce il reale e si fa rito, cibo, sapore, gusto.
La Caddara è un’arte esattamente perché preparare la Caddara non è semplice, ci vuole metodo e maestria, è necessario conoscere la ricetta e possedere un bagaglio di saperi magari ereditati, appresi, rubati da chi è arrivato prima, e ci vuole anche carattere. Ma prima ancora per preparare la Caddara ci vuole amore, tanto amore, quell’amore che fa innamorare anche di un sapore, di un profumo. Amore che genera amore, ricordi, saperi. Saperi che confezionano nuove occasioni.
E allora solo chi sa preparare la Caddara sa che la carne va sistemata secondo una precisa successione, e quindi occorre rispettare i differenti tempi di cottura e di calore, così come l’esatta quantità di sale e soprattutto come rimestare con u’ cucchiaruna, quel grande cucchiaio di legno che le nonne appendevano in cucina per impugnarlo quando da piccoli facevamo i monelli. E noi ci volatilizzavamo.
Oggi…
Oggi l’arte della Caddara è riservata a pochi, a quei pochi che conoscono l’arte appunto, così se in famiglia la nonna non c’è più o la zia è troppo avanti negli anni, in molti paesi della Calabria, e di certo nel catanzarese, è facile trovare la donna che sa fare la Caddara, e in religioso raccoglimento si reca lì dove viene chiamata. E come Dio, lei c’è.
E allora la donna sistema la Caddara sui carboni ardenti o su un fornello a gas, e così acqua, poi i pezzi di carne di maiale come la coda, la cotenna, le gambe, la lingua, il muso, le orecchie, la pancia, le zampe e di seguito di tanto in tanto sale quanto basta. Sono le frittole.
Così, tra una rimestata e l’altra, il maiale cuoce a fuoco lento per 5 o 6 ore e anche più, emanando un profumo difficile da dimenticare. È il profumo della Caddara. È il profumo dell’infanzia di molti di noi.
Il rito della Caddara
La Caddara consegue all’uccisione del maiale, una nobile creatura dagli occhi quasi umani che nel corso dei secoli ha arricchito le tavole dei nostri nonni, e dei nonni dei loro padri. Ma non solo, il profumo della Caddara ancora oggi riporta in Calabria chi nel tempo è stato costretto a emigrare, perché la Caddara è un rito e un rito si sa, va rispettato, onorato.
E allora, la Caddara è un rito perché mentre le donne sono impegnate in cucina, l’uomo invita amici e parenti, e i parenti e gli amici al tavolo bevono un bicchiere di vino e magari stuzzicano un buon formaggio, assieme a peperoni sott’olio, verdure di stagione, olive o fagioli ala pignatta, e poi le frittole e le ossa servite calde e fumanti. Il vino intanto è finito.
Gli emigrati lo sanno, così a gennaio ritornano nel loro paese di origine perché invitati a mangiare la Caddara, magari parlando un dialetto improbabile, difficile da comprendere, ma la Caddara si pronuncia così, Caddara, e il sapore è quello di una volta. Così tra un osso, una cotica e un altro bicchiere di vino iniziano i racconti, i ricordi, gli aneddoti… è il tempo degli amarcord, e intanto qualcuno leva un mazzo di carte perché gli emigrati lo sanno, la Caddara non finisce qui.
Le donne sono ancora in cucina, è il momento dei Ciculi (un’autentica sciccheria) praticamente tutto quello che rimane nella Caddara, quindi piccoli pezzi di carne tra il grasso ormai diventato un olio denso e liquido. E gli emigrati lo sanno, i ciculi si mangiano nella pitta, esattamente come il Morzello e il soffritto di maiale, e con abbondanti dosi ’e peperoncinu pistatu.
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La Caddara è qualcos’altro…
Per dirla come Edgar Morin, è questo l’inizio di un nuovo inizio, è l’inizio di un nuovo inizio perché è esattamente da qui, con i Ciculi, che inizia l’attesa della Caddara del prossimo anno. E allora un nuovo bicchiere di vino, un’altra chiacchierata e magari una grappa, perché la digestione è molto lenta.
Ma l’attesa sarà lunga e lieta, sarà lunga e lieta perché quello che rimane delle frittole e dei Ciculi si conserva in vasi di ceramica o contenitori di stagnola, anche perché si sa, qualcosa a casa tocca pur sempre portarsela.
A presto, Sergio.
Ps: si ringrazia il signor de Vito e compagnia bella.
Bellissimo articolo Sergio , non ti smentisci mai. Un antica tradizione che ancora oggi in pochi paesi esiste.. Nel mio è proprio come tu hai descritto. .
Grazie Raffaella, sempre gentilissima. Il maiale da noi ha un’anima, un’anima che vive nei nostri ricordi e nelle nostre tradizioni. Dimenticavo, da te si chiama Quadara!
A presto,
Sergio